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Destiny come il Napoli

Spoiler: questo articolo fa parte di una collana dedicata ai giochi della generazione che va morendosi.

L’obiettivo è unicamente presentare i giochi che ho provato a fondo e che mi sono piaciuti in maniera particolare, per svariati motivi. Al gentile pubblico sia noto che non si vuole qui e ora selezionare quelle che ritenga essere, in senso assoluto, le migliori uscite della generazione PS4/XB1 (e Wii U/Switch).

Se esiste una recensione inutile di Destiny, oggi, è quella di IGN Italia, fortunatamente le fanno compagnia più o meno tutte le recensioni del Destiny del 2014, pubblicate all’epoca e appesantite mortalmente da un modello totalmente inapplicabile all’idea dei videogiochi come piattaforme, come servizi (Games as a service). Ma questo avevamo e, tremendamente, questo abbiamo ancora nella maggior parte dei casi oggi: tocca tenerselo e farselo andare bene (o anche no, vedete voi).

Quando ho recensito Destiny, la primissima versione, l’ho fatto occupandomi unicamente del single player, lasciando a Marco “MDK7” Mottura il compito di analizzare le dinamiche multigiocatore. A ciascuno il suo, insomma. Vorrebbe dire che, all’incirca, mi sono fermato alla prima coppa a 50cc di un qualsiasi Mario Kart, ma… (vedi sopra: “tocca farselo andare bene”). Nonostante questo, nonostante la marea di strabordante progresso di Destiny, tale da annegare quelle vecchie recensioni piene di ragnatele, il gioco di Bungie è, indiscutibilmente, tra quelli che hanno lasciato un segno anche nella mia percezione della generazione.

La mia convinzione che Destiny sia stato e rimanga un passaggio importante, significativo e interessante di questi anni, non solo è tremendamente banale e ampiamente condivisa, ma soprattutto ha anche un’origine che prescinde dai meriti specifici del gioco. Averlo visto nascere, fin dalla presentazione negli studi di Bellevue di Bungie e poi averne seguito, da distanza di sicurezza, l’infanzia e quindi gli scossoni dell’adolescenza e le prese di posizione della prima età adulta (con l’abbandono del nido), ha fatto molto.

Destiny rimane comunque, e al di là dell’esperienza personale, uno dei cardini di questi anni. Non solo per tutto quello che ha fatto di giusto e apprezzabile in termini di meccanismi ed elementi di gioco, ma anche per la caparbietà e l’incrollabile fiducia in se stesso, con cui ha “obbligato” il mercato a non togliergli mai, davvero, gli occhi di dosso. Quando nel teatro degli studi di Bungie, nel 2013, viene presentata l’idea di Destiny e ai giornalisti viene illustrato il piano decennale di sviluppo, era stato naturale farsi accompagnare da qualche dubbio. Di progetti ambiziosi naufragati nel mare dell’indifferenza, ce ne sono stati e continuano a essercene fin troppi. Gli ultimi annunci hanno invece scandito i prossimi passi dell’universo dei guardiani, fino al 2022. A praticamente un’unghia da quei dieci anni auspicati, sperati e promessi.

Come un matrimonio incidentato, che ha stretto in un accordo morale, e non solo, pubblico, sviluppatore ed editore, Destiny ha sfiorato le stelle e poi è caduto. Più volte. Quando tocca battere la strada per primi, il terreno è più infido, si sa. La grandezza e la forza di Destiny, l’affidabilità, per un lungo periodo, di Activision e la caparbietà di Bungie sono serviti a non staccare la spina anzitempo. Come una squadra di calcio che deve abituarsi a un modo completamente nuovo di giocare, a una nuova dirigenza, a una rosa svecchiata: ogni tanto arriva in finale di Coppa Italia, a volte esce ai gironi di Champions, ma è sempre lì pronta a dare battaglia. Ogni anno. Alla fine Destiny è il “nuovo” Napoli di De Laurentiis.

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