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Inside un altro mondo

Spoiler: questo articolo fa parte di una collana dedicata ai giochi della generazione che va morendosi.

L’obiettivo è unicamente presentare i giochi che ho provato a fondo e che mi sono piaciuti in maniera particolare, per svariati motivi. Al gentile pubblico sia noto che non si vuole qui e ora selezionare quelle che ritenga essere, in senso assoluto, le migliori uscite della generazione PS4/XB1 (e Wii U/Switch).

Non mi ricordo granché di Inside (qui la mia recensione per IGN Italia), così come non riesco a individuare particolari passaggi di Limbo, il primo gioco di PlayDead, quello che assicurò al team nordeuropeo un posto sotto ai riflettori. Mi era piaciuto abbastanza, non troppo, non tanto da giustificare il riproporsi di quell’avventura ad alto contrasto e mille sfumature di nero, ma lì la questione era un’altra. Limbo era diventato, assieme a Braid di Jonathan Blow e a Castle Crashers di The Behemoth, il tedoforo del videogioco indipendente.

Inside rientra nel noioso, ma perfettamente adeguato, discorso del secondo album: quello della conferma. PlayDead è scomparsa per un bel numero di anni, avvolta nel mistero mentre al lavoro sulla sua prossima scommessa: giusto un veloce scostare il velo a un qualche incontro di Xbox pre-E3 e poi, di nuovo, l’oblio.

Per quanto ricordi poco nel dettaglio del gioco, ricordo bene le sensazioni, il feeling generale, le emozioni suggerite e quell’indefinibile melassa in cui mi ha infilato per una manciata di ore. Mi succede lo stesso con i migliori libri che abbia letto o con alcuni film. Ho chiare le sensazioni, molto meno precisi i ricordi. Un accomunare che, per quanto mi riguarda, parla ampiamente a favore di Inside, un gioco che non ha paura di fare paura: non quella paura da film horror, ma un thrilling da maestri del genere. Cosa sta succedendo? Perché sta succedendo? Chi sono quelli? Cosa vogliono da noi? E ora, questo, che diavolo vorrebbe dire?

Forse ho provato troppi giochi per poi non volere immediatamente bene a chi ha voglia di trovare e battere strade differenti, percorsi che non mettano subito tutto di fronte agli occhi del giocatore e che non finiscano per appesantirsi con dei pipponi soporiferi che si premurano di spiegare tutto, quando poi, spesso, ci sarebbe pure poco da spiegare.

Inside invece si lascia guardare, ascoltare, giocare, subire, vivere e alla fine, a ben pensarci, non è nemmeno troppo chiaro cosa sia successo. Si avrà, però e molto probabilmente, la certezza di essere stati altrove e di aver stabilito un rapporto con quell’altrove. Non è poco.

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