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Quello che accade a Cesenatico (non resta a Cesenatico)

A ripensarci adesso mi pare folle aver passato (credo) tre estati a Cesenatico. Non tanto perché Cesenatico non sia degna della mia nobiltà, cosa che in effetti non è, quanto perché a Cesenatico ci sono andato con la scuola. Così, almeno, dicevo io. Altra gente, più comunista-così di me, diceva: “ah, ci sei andato coi preti”, cosa che effettivamente corrispondeva a verità. A luglio del 1993, a luglio del 1994 e, per tutti i santi, anche a luglio del 1995 ho passato due settimane a Cesenatico nella casa estiva dei salesiani (con il campo vacanze di quella che era la mia scuola di tutti i giorni a Milano).

Della casa-vacanze a Cesenatico, che a ripensarci, stilisticamente, doveva molto alle linee morbide e suadenti del ventennio, ricordo gli stanzoni in cui si dormiva in gruppo. L’ampio spiazzo in cemento in cui cuocere e l’immenso campo da calcio a bassissimo tasso di erba e altissima presenza di polveri (sottili o meno), con un bel filare di alberi a separarlo da un prato più rigoglioso. Ricordo la spiaggia di sabbia finemente romagnola, lo stanzone centrale in cui venivano proiettati i film la sera o comunicati annunci di attività varie o di bombe esplose in giro per il Paese. Ricordo anche la camera oscura in cui sviluppare le foto dopo le ore del corso di fotografia, lo spazio all’aperto-ma-coperto coi tavoloni per mettersi a incidere a caldo il legno, mentre tirava una bella brezzolina.

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Esistenziale

All’improvviso uno sconosciuto

E3 2005, presentazione di Condemned: bastonate in faccia e Sega che prova ancora a cercare una posizione in quel mercato così nuovo e così ostile. Va a tentoni, i nemici riconoscono l’odore di disperazione che porta addosso e finiranno per sbranarla, lasciandone solo un (comunque redditizio) involucro da publisher di serie e marchi già ampiamente affermati e raramente sviluppati dai suoi studi storici. Che sono stati cannibalizzati da ogni parte molto tempo fa. Alla fine di quella presentazione mi giro e mi pare di riconoscere vagamente Andrea Palmisano (nella foto in apertura, credo), epperò non ne sono mica sicuro. Pare lui, ma in fin dei conti ci si è visti poche volte di persona, forse mi sbaglio. Ma no, non sarà lui, vediamo se fa una mossa per primo ecco. No, nulla, si gira. Mi sarò sbagliato e comunque ho un altro appuntamento cinque minuti fa al padiglione opposto.

Qualche tempo dopo il Sano80 lì sopra mi contatta, in soldoni mi dice che ci è rimasto abbastanza male, il mio comportamento non gli è piaciuto. Fingere di non riconoscerlo? Dai, si può fare di meglio. Un minimo di contesto, a questo punto: io e Andrea abbiamo lavorato assieme, a distanza, ai tempi di Nintendo la Rivista Ufficiale. Assieme a suo fratello Fabio ha collaborato per un paio di anni buoni, dopo che ci eravamo già frequentati ai tempi di Console Keeper e Alternative Reality e poi Nextgame. La fine della collaborazione su NRU non ha avuto nulla a che fare con il loro comportamento o quanto hanno “prodotto” per la rivista (anzi), ma tutto con il fatto che al contempo fossero attivi anche su altre testate (online) legate a editori differenti. Questo aveva portato a una scelta antipatica, ma comprensibile. Immagino quindi che Palmy credesse che quel mancato saluto fosse figlio di quella situazione.

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Videogiochi

Cross gen e remake: il salto da 16 a 32 bit

Non ho ancora trovato un posto per le raccolte di riviste di videogiochi, dopo l’ultimo (si spera in senso letterale) trasloco. Non ne sono rimaste tantissime, anzi: una parte significativa è stata donata qualche anno fa, un’altra è finita nell’inceneritore (si spera in senso letterale) molto prima, altre ancora attendono di essere elargite al soppalco della Kenobisboch & Associati quanto prima. Però Nintendo la Rivista Ufficiale, Game Power, Zeta, Electronic Gaming Monthly me le tengo. Anche se sono in mezzo ai piedi nella camera dell’inquilino e quindi ci sbatto contro le caviglie ogni tanto. Da un incontro fortuito simile nasce il bel racconto di oggi.

La serie sarebbe: “ma davvero l’ho recensito?”, se non fosse che so per certo di aver dato il via a una rubrica “ma davvero ho scritto questa roba?” anni fa, su questo blog, prima che venisse spazzato via tutto. E in sostanza si tratterebbe sempre della stessa pappa: non ricordavo di aver giocato e scritto di quel gioco lì… a tal punto che potrei, in effetti, averne scritto senza averci giocato. Anche ai (miei) tempi di Game Power si traduceva, che vi credete, con la deliziosa prosa british di Games Master a fare da materiale di partenza. In realtà mi è successo solo una manciata di volte, tutto sommato e in percentuale sono ben di più gli articoli realizzati ex novo appositamente, ma il rischio di non ricordarsi di Hardcore 4×4 (PlayStation, Gremlin) perché effettivamente potrei non averci mai giocato, esiste. Anche se in quel caso credo di averci giocato.

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Videogiochi

Doom Eternal e il siffredismo di Venere

Si era capito fin dall’inizio che questo matrimonio non s’aveva da sparare: un black out aveva interrotto la mia prima pomiciata con Doom Eternal, all’ultimo E3 che avrà senso ricordare come tale. Ma le radici del fastidio che oggi, con in mano la versione completa del gioco da settimane, mi assale a ogni partita, si annidano molto più in profondità.

“Durerà un fracasso, una cosa che io non so nemmeno dirvi, ma proprio tipo guarda, allucinazione tremenda”: trattasi di libera parafrasi di quanto detto da qualcuno di id Software a una manciata di mesi dall’uscita di Doom Eternal… e che aveva fatto capire chiaramente come ci sarebbe stato di che discutere. E in effetti, ora che è qui e che ci ho passato un po’ di ore, mi sento di potermi lamentare, come farebbe un qualsiasi anziano dei Simpson che urla contro il cielo. Non riesco ad appassionarmi a Doom Eternal, non riesco a divertirmi e/o a trovarlo emozionante e in parte mi risulta anche complicato capire perché. Credo che molto debba però essere ricondotto a quella mezza-citazione lì in alto.

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Videogiochi

Art of Fighting: un dibattito ancora aperto

Solo dei senza Dio possono divertirsi con Art of Fighting. Art of Fighting è un’indecenza, una vittoria di pirro per chi di videogiochi non ne sa davvero nulla. Quelli che seguono l’emozione facile di zoom e risoluzione aumentata, i quadricipiti femorali prima dei ventricoli cardiaci, quella gente lì. Io, noi, gente per bene e che c’eravamo da quando si bonificavano le paludi, sappiamo bene che Suo è il cielo e tutto ciò che si trova al di sotto: mai Gli volteremmo le spalle, tanto più per lasciarci accecare dagli infidi riflessi del bronzo pagano di un gioco indegno della Sua luce.

Queste, all’incirca, le pacate considerazioni che mi ribollono tra le due orecchie mentre, sdraiato sul letto di un appartamento in montagna, con il profumo del pranzo cucinato da mia madre che inizia a conquistare il territorio, sfoglio il nuovo numero di Console Mania. Siamo all’inizio del 1993 e la recensione di Art of Fighting è il piatto forte del mese: il gioco, nella sua versione originale per Neo Geo, viene spedito nell’Olimpo con la delicatezza di un 99% 95%. Una cosetta elegante.

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Esistenziale Videogiochi

L’E3 ai tempi di un altro tempo

Old wild west: il vecchio ovest selvaggio, in realtà addomesticato da un pezzo, della Los Angeles di inizio secolo. Questo secolo, chiaramente, quello che sta salutando (per ora o per sempre) l’E3, epicentro dei videogiochi ieri ed epicentro dei soccorsi per la crisi pandemica a una revolverata di distanza da Hollywood. Questa, però, è un’altra storia… per quanto anche il virus abbia infilato la sua buona parte di chiodi nella bara del fu Electronic Entertainment Expo (nota a me stesso: ridurre al minimo l’utilizzo della figura dei chiodi nella bara, l’hai buttata lì un milione e mezzo di volte, basta).

Da qualche mese ho il jewel case di un DVD (ex) vergine sulla scrivania, in effetti sopra a una cassa, già coperto nel tempo da due sacchettine per altrettante coppie di auricolari sportivi e qualche busta verdognola col marchio della polizia. Oggi ho ricollegato il lettore esterno e infilato dentro il disco: “Foto Los Angeles 2004”.

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Esistenziale

Il capolinea della 44

Questa cosa che le linee degli autobus cambiano mi ha preso un po’ in contropiede. Me ne sono accorto qualche anno fa: per motivi che ora non ricordo precisamente, mi sono messo a controllare se l’autobus 44 facesse ancora lo stesso giro, a Milano. E non lo faceva.

La zona rimaneva quella tra Greco e viale Fulvio Testi, finendo per incocciare all’incirca contro le grandi barriere invisibili di Cascina Gobba. Questo, appunto, succedeva alcuni anni fa, oggi la situazione potrebbe essere cambiata un’altra volta (o altre due volte).

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