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Quello che accade a Cesenatico (non resta a Cesenatico)

A ripensarci adesso mi pare folle aver passato (credo) tre estati a Cesenatico. Non tanto perché Cesenatico non sia degna della mia nobiltà, cosa che in effetti non è, quanto perché a Cesenatico ci sono andato con la scuola. Così, almeno, dicevo io. Altra gente, più comunista-così di me, diceva: “ah, ci sei andato coi preti”, cosa che effettivamente corrispondeva a verità. A luglio del 1993, a luglio del 1994 e, per tutti i santi, anche a luglio del 1995 ho passato due settimane a Cesenatico nella casa estiva dei salesiani (con il campo vacanze di quella che era la mia scuola di tutti i giorni a Milano).

Della casa-vacanze a Cesenatico, che a ripensarci, stilisticamente, doveva molto alle linee morbide e suadenti del ventennio, ricordo gli stanzoni in cui si dormiva in gruppo. L’ampio spiazzo in cemento in cui cuocere e l’immenso campo da calcio a bassissimo tasso di erba e altissima presenza di polveri (sottili o meno), con un bel filare di alberi a separarlo da un prato più rigoglioso. Ricordo la spiaggia di sabbia finemente romagnola, lo stanzone centrale in cui venivano proiettati i film la sera o comunicati annunci di attività varie o di bombe esplose in giro per il Paese. Ricordo anche la camera oscura in cui sviluppare le foto dopo le ore del corso di fotografia, lo spazio all’aperto-ma-coperto coi tavoloni per mettersi a incidere a caldo il legno, mentre tirava una bella brezzolina.

A pensarci bene, della casa-vacanze a Cesenatico, ricordo molto più di quanto non credessi. I giochi in pieno stile Grifondoro e Serpeverde, con bullismo quasi inavvertibile (o non da me o non dalla mia percezione ingenua e quasi-pre-adolescenziale della faccenda). Le uscite lungo la passeggiata del paese, le visite all’edicola per comprare Appleseed e Game Power, le serate in sala giochi tra Bubble Bobble Symphony e Tower of Doom. I pomeriggi con il Game Boy di Stefano e Super Mario Land, le discussioni selvagge in cui cercavo di salvare l’anima di Alessandro (o era Paolo?), che con la sua radiolina si ascoltava il Deejay Time invece di abbracciare la chiamata della musica giusta che avrebbe ripulito il mondo. Che poi era quella che ascoltavo io.

Che poi è il motivo per cui ho iniziato a scrivere questa cosa: nel 1995, a giugno, assieme a mio fratello e a Filippo, sono andato a farmi scotennare dal sole per godermi Sonoria, secondo appuntamento dell’allora nuovo e promettente festival musicale milanese. C’era Terence Trent D’Arby che non si chiamava già più Terence Trent D’Arby, ci sarebbe dovuta essere Sheryl Crow che però è rimasta bloccata a far compere in via della Spiga, credo. C’era Page e si era portato dietro un suo amico dai capelli ricci, Plant. C’erano, soprattutto, i Cure a fare da headliner, eravamo lì per loro. Lì ho scoperto per davvero i lineamenti della cultura dark anni ’80: in una postazione qualcuno era a disposizione per spararti i capelli in maniera vagamente cespugliosa, vedevo frotte di gente con scarpe da ginnastica dalla linguetta fuori misura, maschi e femmine col volto truccato. Per me, quindicenne, la faccenda era molto stramba, molto interessante, molto diversa.

Quando a luglio sono andato a Cesenatico ci sono andato accompagnato da una cassetta su cui mio fratello aveva registrato una valanga di pezzi dei Cure. Così che potessi coltivare quella cosa. Non ricordo più esattamente quale fosse la selezione, forse da una parte c’era Show, il live del 1992, e dall’altra Staring at the Sea, la raccolta di singoli del 1986? O forse direttamente Disintegration? Sta di fatto che la sera mi addormentavo con il walkman sotto il cuscino e un auricolare che mandava Play for Today e tutto il resto. Dubito che mio fratello avesse idea delle ripercussioni.

You never looked as lost as this
Sometimes it doesn’t even look like you

(A Night Like This)

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