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The Gentle Art of Making un concerto

Faith No More (poco prima di Milano)
Faith No More (poco prima di Milano)

Accosciato tra il limite estremo del palco e la batteria, in completo argentato, Mike “Sono il diavolo” Patton stringe con due mani il microfono e delira le urla che chiudono “The Gente Art of Making Enemies”: “…never felt this much alive”. Ora, tutto c’è da dire del concerto dei Faith No More al PalaSharp di Milano, tranne che fosse ispirato e promosso da un qualche soffio vitale. A ben pensarci è proprio il concetto (e soprattutto la realtà) di soffio a mancare: spostato dal Regno delle Zanzare (Idroscalo) al Regno del Cemento (PalaSharp), il peraltro giovanissimo e contrissimo Rock in Idro ha vinto un tasso dell’umidità del settecento per cento, la totale mancanza di ossigeno, un calore da deportazione messicana e un odore da stalla in macerazione. C’è palesemente troppa gente dentro al palazzetto, la temperatura è ignobile anche se sono le nove e mezza (di sera) quando arriviamo e i Limp Bizkit si stanno chiedendo perché diavolo dovrebbero suonare lo stesso giorno dei Faith No More e rendere noto a tutti quanto non valgano le calze di Patton e soci. E ce n’è troppa poca fuori, di fronte al Dj maranza-molto giovane che parla un linguaggio così cool che andrebbe preso a porfidate sulle tempie, elargite in ampie porzioni cubettose. Arriva a dire che “[cantantessa X] ce la butteremmo giù tutti volentieri”. Supponiamo si riferisse alla voglia di farci all’amore, ma non ci sono certezze.
Dentro, comunque, tutto prosegue per il peggio: usciamo dopo 30 secondi, appena in tempo perché Fred Durst inizi la più vergognosa delle testimonianze che lascerà al mondo animale. La cover di “Behind Blue Eyes” degli Who. Roba che fa male ancora oggi. Ritorniamo solo quando c’è la speranza che il concerto dei Faith No More stia cominciando. E comincia. Tra due cover utili come in poche altre occasioni (la “Reunited” d’apertura che è anche l’idiota manifesto programmatico della serata e la squilibrata riedizione di “Poker Face”), c’è tempo, sudore, urla e modo di godersi praticamente tutto il meglio di un gruppo che non ne ha sbagliata una, checché ne avessero da dire i critici del post-Angel Dust. Da “The Real Thing” a “Ashes to Ashes”, da “Be Aggressive” a “From Out of Nowhere”, da “Land of Sunshine” a “Stripsearch”. I due momenti chiave rimangono però “Evidence” e “The Gentle Art of Making Enemies”. Non perché siano in assoluto i migliori pezzi del gruppo (io, di per me, continuo a rimanere fisso su “Angel Dust”), ma perché la prima viene cantata tutta in idioma italico, con risultati ridicoleggianti (in perfetto stile Patton) e Mike che alla fine si lascia andare a un: “però… sembravo Eros, cazzo!”. E la seconda è talmente aggressiva, violenta, strepitosa e lancinante che è da sempre nella mia top 3 del gruppo e quindi, alla fine, tra quella e “Land of Sunshine” ho capito che si poteva e doveva affrontare l’ignobile caldo.
Un’ora e mezza precisa, in cui il gruppo si infila in una macchina del tempo perfettamente tarata sulla prima metà degli anni ’90, con le loro vibrazioni da tastiera eighties, i riff maestosi e quella voce che può (oggi come e forse più di ieri!) spaziare da Berry White a Giorgia in pochi istanti. Una delle voci più incredibili degli ultimi vent’anni, uno dei gruppi più idioti e possenti che ci siano stati al di fuori della lunga onda del grunge (pre-grunge, a dirla tutta). Giù il cappello, su il bastone da Lord avvinazzato che accompagnava ieri Patton.

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