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Dylan on Dylan

A 68 anni Bob Dylan potrebbe fare il Bob Dylan, il monumento di se stesso: una riproduzione in marmo della leggenda, appoggiato ancora sui palchi di mezzo mondo, come un magro e leggendario juke box con la cassa gracchiante. Nessuno troverebbe granché da ridirci. Invece, a 68 anni, Bob Dylan rifa quello che vuole del Bob Dylan che fu e che è, trovando ancora posto per rotolare un po’ dove vuole, senza apparente direzione per una casa, come quelle altre famose pietre di cui ha celebrato la voglia di esplorazione mezzo secolo fa. Completo nero e nemmeno mezza parola rivolta al pubblico, Mr. Bob fa quello che vuole, come sempre. Va dritto per la sua strada e si mette al centro del baretto, prende le strisce in sovraimpressione dei suoi testi e le legge, le strappa, le mastica e le risputa arrotolate al pubblico. Non sta effettivamente cantando. Non sta cantando come avrebbe fatto se fosse il juke box di cui sopra almeno. Sta rilanciando le parole grattate e deformate a piacimento, riarrangia le liriche come le musiche e non regala al Mediolanum Forum un’operazione nostalgia. Se dopo più di quarant’anni Dylan va ancora in giro per i quattro angoli del globo è perché non si è arreso all’idea del suo stesso mito, così deve rifare suoi i pezzi che lo hanno incorniciato nella mitologia, senza che le canzoni riescano a diventare qualcosa di più grande di lui, senza farsene possedere. Sono ancora le sue canzoni e, per tanto, ci fa esattamente quello che vuole. Il risultato è un’iniezione di sfrontatezza e rilassatezza, di indicibile magia e brividi. Primo, perché trova il punto di equilibrio tra la scaletta che gli va di fare e quella che comunque offre sufficienti motivi per farsi prendere da un coccolone (“Ballad of a thin man”, “Just like a woman”, “All along the watchtower”, “Stuck inside a mobile…”!). Secondo, perché lo show è una lavatrice del tempo, un cestello lanciato in centrifuga che riporta il palazzetto dello sport in un’altra epoca, con i fari di grosse Cadillac a illuminare la band da dietro, in mezzo a un qualche campo coltivato improvvisato palco, con le lampadine che cigolano appese sopra lo stage, in un’America di decenni più giovani. Terzo: perché per questo è l’unica occasione possibile per ascoltare questo rock. Questo modo di fare. Questo splendido inno al folk e al jazz che danzano un valzer seguendo una stratosferica sezione ritmica e vengono lanciati nell’iperspazio di Urano dalla voce di Dylan e da quello che ha avuto il coraggio di suonare la chitarra solista sulla già citata “All along the watchtower”. Per dire ai propri figli “io c’ero”, ma con un senso, e senza muschio sotto il sasso.

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