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Insalatunes: The Cure

The Cure - anche a loro ci piace la birra
The Cure - anche a loro ci piace la birra

Si vede che ho finito il grosso dei lavori e ho del tempo extra? Si vede. Ritornano, per acclamazione del popolo, i vecchi post insalatari. Roba che, credo, risale all’epoca LiveJournal. O forse non è vero e non è mai risalita a nulla e non li ho mai scritti su di un blog. Comunque sono faccende nate all’epoca della redazione corridoio di NRU: prendi tutto quello che hai di un artista su iTunes, lanci la riproduzione casuale e ti segni giù le prime dieci. E’ un metodo scientifico particolarmente utile per studiare i gruppi con almeno un quattro o cinque dischi alle spalle. Per studiare l’evoluzione o la mancanza di evoluzione e scoprire, magari, punti della carriera che, insospettabilmente, si palpano l’uno con l’altro. Questo è un modo, quello migliore, invece, sarebbe di spararsi tutta la discografia di fila. Cosa che ogni tanto faccio anche, con indicibile godimento (nel week end è stata la volta dei Queens of the Stone Age con una spruzzata di Kyuss, per esempio). Ma quando non c’è tempo o si vuole buttare tutto in caciara, meglio il randomizzatore. Che per questa prima occasione tocca ai Cure.


Partenza pesante, lanciata, rappresentativa come difficilmente potrebbe essere di più: “The Figurehead” (“Paris” – 1993). Uno dei pezzi migliori di “Pornography” (1983), con tutto quel carico di “morte subito” tipico della prima metà degli ’80 di Smith, Gallup e soci. Voce delicatamente decisa a scovare del nero ovunque. Ma quel nero fascinoso, reso più setoso dall’incidere tribale della batteria, dal tappeto ritmico di un basso come sempre marziale e inamovibile, dalla chitarra che guaisce inesorabile. In una versione live che non ha nulla da invidiare a quella da studio. Anzi. Secondo posto per “The Perfect Girl” (“Kiss me, Kiss me, Kiss me” – 1987). E anche questa volta, non c’è di che discutere: iTunes sa quel che fa. Dopo una legnata greve come quella precedente, si dimostra abile nel cambiare il registro e puntare sul pop etereo che ha reso il doppio disco una delle pietre miliari della carriera dei panda inglesi. Altro giro, nuova canzone, ancora un colpo durissimo: “Charlotte Sometimes” (“In Orange” – 1986). Inutile far finta di nulla, è forse il mio pezzo preferito tra i settantadue zillioni concepiti da Smith e compagine. Una ballata come può essere una ballata su di una scogliera in piena notte e senza luna. Il capolavoro senza disco (esce solo come 45 giri) dai toni disperati e speranzosi al tempo stesso, amorevoli e inconcludenti. E la canzone che, poco più di un anno fa, ho dedicato in tutti i modi possibili alla tizia col moccolo al naso. Oh, peraltro non rinnegando nemmeno per mezzo secondo di averlo fatto. Stiamo entrando troppo nel patetico romanticoso? Succede, soprattutto coi Cure. Se non succede coi Cure, con chi succede? Vasco?
Salto in avanti portentosissimo: “The Perfect Boy” (“4:13 Dream” – 2008). Uno dei singoli dell’ultimo disco non lega a sufficienza con quanto appena sentito per credere nella teoria dei palpeggi di cui sopra. La voce è un’altra cosa. Non meno affascinante, decisamente meno disperata e velata. Come pare sia diventata pratica comune, avanzando negli anni Smith ha tolto qualche filtro e l’ha messa in primo piano. Assieme, magari, a un paio di sovra incisioni della stessa, con auto-coro a corredo. L’atmosfera è ancora sognante, ma in maniera più coreografica, ricca, scoppiettante e sicuramente meno definita e d’impatto rispetto al passato. Siamo comunque dalle parti di “The Perfect Girl”. E, ora che ci penso, va a finire che è l’altra metà della medaglia con ventidue anni di ritardo. Per il quinto giro iTunes si affida ancora alla seconda metà della carriera dei nostri: “Want” (“Wild Mood Swings” – 1996). E’ un pezzo talmente Cure che con la traccia in testa a questa selezione, tutto sommato, va tranquillamente a braccetto. C’è un altro modo di produrre e di affrontare la faccenda, ma è innegabilmente la canzone “à la Cure” che chiunque compri un disco del gruppo si aspetta. Fortunatamente. Con quei due minuti e rotti di intro che sono sempre, e comunque, il più splendido marchio di fabbrica delle canzoni davvero riuscite dei Cure. Nessuna possibilità di abituarsi ai ritmi meno riflessivi e devastati, se la scelta seguente ricade su “Other Voices” (“Faith – Extended” – 1981/2005), proposta qui in una versione dal vivo infilata nell’edizione estesa e rimpolpata del terzo disco della band. La registrazione d’annata aggiunge carattere, quello che comunque non manca grazie a uno strepitoso, semplice ed efficace giro di basso (niente di nuovo insomma) e all’effetto eco che perfettamente si confà alla canzone. Sotto è tutto un rigirare di un riff di chitarra che avrebbe voluto essere suonato in modalità Punk con la Cresta.
Ed è ancora un pezzo dal vivo che arriva dopo le altre voci, evidentemente iTunes ha piacere a ripetersi: “In Between Days” (“Festival 2005” – 2006). C’è una chitarra più vibrante e possente dell’edizione originale su disco, ma per il resto è quella solita infusione di romantico pop sgranocchioso che ogni ragazza amante dei Cure metterebbe nella Top Ten delle migliori in assoluto. La dimensione live la rende meno incasellata e quel minimo più ruvida. Fa parte della stessa famiglia di “The Walk” (“Japanese Whispers” – 1983), il trionfo della pianolina anni ’80, dell’effetto translucido del glam-o-rama della decade che intere legioni di duri & puri vorrebbero uccidere. Ed è anche la canzone che mi ha fatto innamorare dei Cure a quattordici anni, col walkman sotto il cuscino in vacanza con la scuola a Cesenatico. Dico, peggio di così non si potrebbe fare. Il mio iTunes mi conosce.
Siamo quasi in chiusura, ma la penultima posizione è di tal pregio che è davvero un peccato abbandonare il tutto: “Catch” (“Paris” – 1993). Seconda scelta dallo stesso disco, ancora una volta “live”. Altra canzone che non è possibile evitare se si parla delle canzoni che hanno fatto grandi i Cure. Sarebbe pop, sarebbe scema, sarebbe divertita. Sarebbe… perché, poi, nella reinterpretazione francese diventa triste e malinconica come raramente Smith l’ha conosciuta. La voce continua a cadere, la testa a guardare verso l’alto con gli occhi chiusi. Se volete conoscere “The Walk” per la prima volta una nuova volta, ascoltate questa versione. Punto. E infine arriva lei, quella che uccide tutto: “Let’s Go To Bed” (“Japanese Whispers” – 1983), per un iTunes che continua imperterrito a girare su se stesso. Ricominciamo sempre dalle stesse cose: è l’altra metà del cielo di “The Walk”, è ritmata e inzuppata negli ’80 talmente tanto che fa il giro e diventa di un bello da far male. Eppure dovrebbe essere solo un divertimento con una spruzzata di maleserre amoroso made in Smith. Sarà l’accompagnamento a base di “du-du-du”, sarà il battito di mani sintetico, sarà il basso Fisher Price, sarà l’acqua o sarà il caffé, ma “Let’s Go To Bed” tira le corde del sipario con tutta la dignità di questo mondo.

Nota: dalla selezione sono state escluse in maniera coatta tutte le ripetizioni (pur limitandosi a 10 canzoni è successo anche questo, pessimo iTunes) e i demo da studio (per la cronaca erano: “The Caterpillar – The Top Studio Demos”, “I’m Cold” – “Three Imaginary Boys Studio Demos”), oltre che i remix (“This is a Lie Palmer Remix” – “Join the Dots”). E la prima canzone dopo le undici? “Snow in Summer”, una straziante e sognante b-side. Andava bene anche continuare…

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