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Sour cream

Sounds of the Universe - Depeche Mode
Sounds of the Universe – Depeche Mode

“Sounds of the Universe” è una creatura britannica mitologico-spaziale: un Cerbero OGM a due teste. La prima è quella che imposta un’elettronica sensualmente ruvida e spigolosa, ha i tratti somatici da poeta che va aggrizzendosi di Martin Gore. La seconda esplode una voce calda e trascinante, arrembante e provolona e, naturalmente, si mostra con gli occhiali da sole di Dave Gahan. I due si rincorrono e si distanziano, con la musica composta di angoli e lance che trafiggono continuamente il tappeto sonoro, raramente lasciato libero di fluttuare dolcemente e senza gravità nell’iperspazio proposto dal titolo del disco. Gahan sembra voler cantare indipendentemente da quello che gli succede attorno, nonostante la cura sintetizzata e sintetica dei chi tira i fili delle marionette, sempre Gore. Eppure, come in una splendida e fruttuosa catena del DNA che genera successi da quasi trent’anni, i due flussi finiscono altrettanto spesso per ritrovarsi, intrecciarsi e perdersi di nuovo. L’avvio della vicenda è affidato alla litania amorosa di “In Chains”, con un urlo elettronico che si esaurisce stancamente per un lungo minuto prima di lasciare spazio a delle porzioni monodose di chitarra elettrica, perfette nel loro piccolo loop che, come succederà per tutti gli episodi restanti di “Sounds of the Universe”, rifuggono i lunghi giri e le scalate rock di “Playing the Angel”, tornando nei territori più cari (per qualche verso) a “Violator”. Più straniante ma tutto sommato simile quanto accade in “Hole to Feed”, che prende vita sul battere tribale di un gruppo di bambini andati a scuola da Trent Reznor, ma non per questo traviati del tutto. Tanto che torna il giro di chitarra accennato e replicato, che si innesta su un altro giro, che si interrompe per lasciare il tempo a Mr. Fletcher di lanciare due raggi gamma. Gahan potrebbe continuare a dire quel che dice inconscio dell’attività alle sue spalle, con il piccolo shuttle Depeche Mode che lascia l’armosfera terrestre e inizia a produrre luci colorate. E forse per questo l’interpretazione del signor Dave è roba di primissima classe, la spiegazione unica e concepibile per capire il surriscaldamento pettorale di ogni signora di trenta e passa anni quando capita a tiro del Gahan. Quanto basta per capire come si è arrivati a “Wrong”, il primo singolo, il pezzo che Gore definsice come “quanto di più vicino all’r&b i Depeche Mode abbiano mai e potranno mai fare”. E’ un inno da topaia, un salmo incazzoso e un mantra da soldatini che abbandonano il campo di battaglia. La chiave di lettura è quella dei Depeche anni ’80, con suoni corrotti e meno gel sui capelli, uno stratosferico controcanto di Gore e materiale da pogo solitaro.
Lo shuttle continua il suo viaggio orbitando attorno a una stazione spaziale abitata, considerati i segnali terrestri, umani e più classici di “Fragile Tension”, tra i momenti più semplicemente melodici di tutto il disco. Anche questa volta non c’è spreco di chitarre elettriche, che parlano poco ma bene, eppure riescono a ritagliarsi quasi un bel riff tutto loro. In una disquisizione sull’improbabile alchimia che tiene ancora vivo un rapporto, le due teste della creatura per una volta paiono guardare perennemente nella stessa direzione, senza tanti scossoni e un abbraccio alla produzione più efficace dei Depeche Mode, anche se magari datata 2005. Non può dirsi lo stesso di “Little Soul”, che agisce da spartiacque nella pioggia di meteoriti in cui il gruppo sta andando a cacciarsi. E’ la prima delle canzoni a gravità zero, ancorata a nulla, libera di rotolare senza meta sotto a un’ipotetica gigantesca abat-jour, fuori dall’oblò gli occasionali lampi siderali che Fletcher lancia per  includere un accenno di inquietudine alla coppia fluttuante: Gahan e Gore cantano all’unisono un caldo pezzo soul. In un’altra forma avrebbe potuto prendere vita ai tempi di “Faith and Devotion”, questa volta però ci sono troppe interferenze radio e una fantastica chiusura in cui l’ennesimo accenno di chitarra prende il palco per pochi secondi. Poteva non esserci, tanto è accennato, ma c’è e senza sarebbe stato un delitto.

“In Simphaty” si muove con dei piedi così soffici e grattugiosamente anni ’80 che a dirlo parrebbero tornati i paninari, invece il terreno è sconnesso e come sempre Gore ha applicato un bel filtro “distorci” sufficiente a rendere meno accogliente e banale l’appartamento, fortunatamente rasserenato dal benvenuto continuo di Gahan. Ancora una volta quel che inizialmente appare come un episodio semplice e smagrito, rivela col passare del tempo la stessa quantità di strati di una bella cipolla in codice binario, con i passaggi e le creaturine elettriche ad abbaiarsi tra il canale sinistro e quello destro. Poi c’è da discutere con “Peace”: un angelus recitato nel buio dello spazio e dedicato al pianeta Terra, tutto costruito attorno alla tastiera di Fletcher e a qualche gigantesca graffetta arrugginita, ma che apre le braccia e lancia una carezzona gigante con il corposo coro in cui questa volta né Gore né Gahan vincono uno sull’altro. Eppure è troppo smaccata nel bridge con falsetto proprio di Gahan o nel ripetersi tutto sommato un po’ stancamente fino al termine dei quattro minuti e rotti previsti. Non c’è tempo per abbandonarsi a malinconoie, il ritorno è a base di “Come Back”, strepitosa fusione di universo stellato dagli orizzonti infiniti (tastiere) e sangue pulsante (le chitarre), che innalzano un’interpretazione da sturbo reale di Dave. Pause, scontri, esplosioni sonore, spazio perfettamente distruibuito tra voce ed elementi sonori, con una spruzzata di ipnotica magia romantica dei vecchi tempi. Il passaggio migliore di “Sounds of the Universe” assieme a “Hole to Feed” probabilmente. La questione va chiudendosi, l’ultima fase del viaggio Depeche respira con la strumentale “Spacewalker” (utile all’incirca quanto le tracce strumentali di “Ultra”, ovvero poco o nulla), solo per tornare a lavorare con più tranquillità e regalando qualche bacio con lo schiocco retrò ai fan più intransigenti. “Miles Away (the Truth is)” è rock d’annata e poco dannato marchiato DM, bello, saporito e sorprendente quanto una pizza margherita ben cotta. “Perfect” parte con la bestemmia, un saluto vocale di Gahan che se non ci stai troppo attento sembra Simon Le Bon dei primi anni ’90. Poi va a parlare di universi paralleli e l’ammiccamento al titolo del disco è talmente facilotto che ai proto fighetti di questo blog nemmeno piace. E’ proprio quando la voce di Sir Dave ha ripreso a prevalere nettamente sul resto che Gore si prende il suo solito spazio, quello rassicurante e da vero leader della band di “Jezabel”. Che purtroppo è “il classico pezzo alla Gore”. Ma che grazie a dio anche questa volta abbiamo “il classico pezzo alla Gore”, perché è romantico e vitale quanto una rotolata nell’erba appena tagliata con la Designer. Anche se il tutto prende una (fantastica) deviazione sottozero e vagamente inquietante nella chiusura. Dopo quasi un’ora di distacco dall’orbita terrestre e con ancora nelle orecchie la eco della romanza di Gore, conclude il documento spaziale la buona e dimenticabile “Corrupt” (che si accende con il più chiaro riferimento a “Music for the Masses” di sempre). Vive sull’onda energetica dei precedenti “Perfect” o “Miles Away”, a riconfermare ancora una volta la duplice natura di ogni singola canzone e dell’intero disco.
Se da “Sounds of the Universe” il ritrovato e foltissimo pubblico dei Depeche Mode si aspettava un secondo “Playing the Angel” (quello sì che era il vero disco da stadio), ci saranno delusioni e mugugni. Il nuovo sofrzo in studio del gruppo della musica per le masse è un tortino anni ’80 farcito di panna acida. Ma d’altronde già l’ignobile copertina dovrebbe aver fatto capire che questa volta non ci sono specchietti per allodole.

Depeche Mode – Sounds of the Universe
Mute Records – 53 minuti
Queste dovete ascoltarle: Hole to Feed, Come Back, In Simpathy, Miles Away (the Truth is)

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