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Se il cuore rimane sulla copertina

Black Gives Way to Blue (Alice in Chains - 2009)
Black Gives Way to Blue (Alice in Chains - 2009)

Un nuovo inizio: è un auspicio quello proclamato deciso, con giusto un filo di scazzo post-mortem, da Jerry Cantrell in “All Secrets Known”, pezzo che apre “Black Gives Way to Blue”. Lo fa mentre la chitarra sale fino a creare un muro granitico, quasi una barriera innalzata contro qualsivoglia critica. Perché di critiche ce ne sono state e ci saranno: riesumare il nome Alice in Chains anche con uno Staley sepolto da mo’? Ma è roba loro e se decidono di farlo, saranno ben fattacci propri. Moralmente parlando, perlomeno.


All Secrets Known” è il perfetto singolo che riassume l’essenza del primo disco di inediti del gruppo dal 1995 a oggi. Solo che non è un singolo, ma questo conta poco.  “There’s no going to back”, continua Cantrell, che mette da parte il non-sostituto DuVall, in realtà impegnato solo relativamente al microfono per tutti i 60 minuti del disco. Anche quando Cantrell si lascia andare con la chitarra a una progressione che fa troppo prog e a un lamento tipicamente vecchio stile, il risultato non va mai oltre. Non è male, ma si ferma tra testa e cuore, incapace di raggiungere quella bella e adorata pompetta ad altezza torace. Jerry, d’altronde, sarà anche sempre stata la mente degli Alice in Chains, ma il cuore e l’anima imbizzarrita, petulante e lagnosa era Staley. Senza di lui rimane tanta testa, sentimenti, depressione cosmica e voglia di rifarsi, ma a parlare non è mai quell’anima tumulata ormai da otto lunghissimi anni.
La chitarra non si ferma mai, proseguendo inarrestabile dalla prima traccia alla seconda, “Check My Brain” (questo sì, il primo singolo). E c’è addirittura del sole da queste parti. Quello californiano della nuova redisenza di Cantrell, che chiede chiaramente a qualcuno di controllargli la testa: possibile che abbia abbracciato la vallata della finzione abbandonando il quotidiano grigiore-verità di Seattle? Possibile. Bel ritmo, bella voce, DuVall non pervenuto. Un pezzo vecchio stile, ce la può fare, anche se manca il cambio di passo.
Levandosi orologio e calendario, l’attacco di “Last of My Kind” può tranquillamente essere sconfuso per qualcosa dell’epoca “Facelift” (debutto degli Alice in Chains – 1990). Almeno fino al calare, dopo pochi secondi, della voce di DuVall. Finalmente impiegato di fronte al microfono. E tiene bene: nel senso che il mestiere lo sa fare e l’interpretazione è anche discreta, ma nemmeno a dirlo manca totalmente di profondità emotiva rispetto a quell’altro che mi sono anche abbastanza rotto di citare. La chitarra continua a creare il suo bel muro “che non si dica che ci siamo rammolliti”, ma l’ugola del novello membro è troppo simile a quella di Jerry Nostro per creare qualcosa di realmente intrigante o donare maggiore profondità all’intera vicenda. Avendo ancora i capelli lunghi da sbattere in giro, “Last of My Kind” è il posto ideale per farlo.
Poi arriva qualcosa di diverso: ascoltare i primi venti secondi di “Your Decision” ha una sola e ovvia e inevitabile conseguenza… ripensare a un pezzo a caso di “Jar of Flies”, gli strepitosi Alice in Chains acustici che mettevano di fronte a tutto la lettura unica e disperata di Staley (aggh!) dei giri di chitarra di Cantrell. La classe non è andata persa, ma la chitarra elettrica che ulula in sottofondo e il “pieno” di basso e chitarra ingolfano la canzone, quasi non ci si fidasse a tenerla in piedi senza la classe cristallina e la personalità da brividi dell’ultradefunto. Goduria con dei punti di domanda in testa e un filo di malinconoia galoppante.
A Looking in View” è il punto di svolta del disco, il giro di boa che idealmente funge appena appena da spartiacque. Sette minuti gettati in pasto ai fan ormai un mese e mezzo fa, a rompere il digiuno durato quei tre secoli e mezzo. Ancora una volta gioca tutte le sue carte sulla chitarrona super sbrangh-sbrangh, lasciando all’accoppiata di voci (sempre quei due, Cantrell+DuVall) l’obiettivo di fare da contraltare, riempire d’umanità un pezzo fin troppo intriso di cliché simil-metallari. Che comunque vanno bene, è una delle pallette del DNA del gruppo. Quando, però, il duo mugola lagnoso, il fantasma torna a reclamare la sua bella dose di “se” e di “ma”. Il complimento più grande che si possa muovere alla canzone è che nei sette minuti non ci si annoia mai, pur mancando una vera evoluzione.

Le vecchie foto coi pantaloni di pelle: immancabili.
Le vecchie foto coi pantaloni di pelle: immancabili.

Girato lo sguardo verso la seconda metà di “Black Gives Way to Blue”, arriva il pezzo migliore dell’intero album: “When the Sun Rose Again”. Il patrimonio genetico è ancora quello delle ballate disperate più tipiche e fortunate di Cantrell, qui riproposto attraverso un bel giro di chitarra, quella che pare a tutti gli effetti una cow bell di lusso e il solito urletto della chitarra elettrica che non stona del tutto, ma invero poteva anche starsene a casa sua. Qui, più che altrove, DuVall prova in mezza occasione a fare per davvero lo Staley, ma va perdonato. Primo, perché non finisce poi così male, secondo perché tanto in testa a tutto c’è sempre la voce del biondo chitarrista, terzo perché l’atmosfera è stramba quanto azzeccata. Una marcettina che non dovrebbe permettersi di risultare così delicatamente mortifera (e invece gliela fa). Chiusa senza indugi ancora sulla chitarra acustica.
Quello che manca, e che continuerà a mancare all’intero album intendiamoci, è una certa sensazione di progressione, di diversificazione. Insomma, l’anima mutante oltre alla testa pensante. Ci prova “Acid Bubble”, che lavora prima lentamente ed epicamente (in modo tutto sommato simile alle prime tracce), per poi dilungarsi in un lamento di Cantrell, concedersi una pausa a base di violenze sputazzate di DuVall e riprendere a macinare classici ingredienti-Alice in Chains fino alla fine. Aiuta a dare volume all’album, ma chiedere di volerle davvero bene è difficile.
Più luce che ombre sul panorama dipinto da “Lesson Learned”. Anche qui le eredità sono innumerevoli: dallo “yeah” sibilato in chiusura di strofa/ritornello all’urlo della chitarra che ponteggia fino all’ennesimo ritornello in doppia voce. Ma, come in tanti altri momenti di “Black Gives Way to Blue”, manca il cambio di marcia. Parte già lanciatissimo, ci crede da duro e puro dei primi anni ’90, però non sa darsi più di una faccia. Diventa bella e prevedibile.

William DuVall, sta al suo posto e aggiunge chitarra.
William DuVall, sta al suo posto e aggiunge chitarra.

Diventa invece difficile parlare anche di “Take Her Out Again”, nei suoi quattro precisissimi minuti che trasportano il disco verso gli ultimi due pezzi. La struttura è quella descritta altre seicentodue volte in questo strepitoso post. C’è più lavoro del batterista, Sean Kinney, e, tutto sommato, è onesta nel suo incedere possente e smargiasso, con degli sdoppiamenti di chitarra vagamente fantasmagorici (nel senso dei fantasmi). Roba da viaggio in auto da godersi pensando perché da giovanotti sembrava tutto meglio, ma dopo i primi cinque o sei ascolti pare difficile prevedere un futuro da prima della classe.
La chiusura… quella sì che va bene. “Private Hell” trova un Cantrell capace finalmente di sfoggiare carattere simile a quello dell’amico dipartito e la canzone ha sufficienti idee e orizzonti per aggrapparsi al cuore e alle orecchie e rigirarli a proprio piacimento. C’è ancora tanta, forse troppa, roba in primo piano, ma per una strana questione di equilibri, la sensazione generale è che la canzone si muova da sola e che la band stia solo seguendone l’andamento assecondandola con gli inserti di DuVall e lo sguardo perso degli altri tre.

Durante la registrazione: un sacco di barba e barbiturici.
Durante la registrazione: barba e barbiturici.

“Haunted by your ghost / lay down black gives way to blue / lay down I remember you”: a spegnere la luce rimane la traccia che dà il titolo all’intero disco. Una ballata, questa volta indiscutibile, che tra pianoforte e chitarra acustica, racconta in maniera quasi fastidiosa i dolori d’animo del non più giovane Cantrell di fronte alla scomparsa della metà degli Alice in Chains. Un continuo lamento con poco spazio e modo per prendere fiato, che non concede nulla alla maniera, chiudendosi inesorabilmente ai tre minuti di orologio, per negare tutto quanto ipotizzabile su questi Alice in Chains. Che non vogliono andare avanti senza Staley, ma vogliono suonare, che tirano giù la saracinesca “ripensando solo a te, ogni giorno”. Che sono gli unici ad aver diritto di parola sul senso e sull’opportunità di firmare un album con questo nome, senza quella voce, all’alba del 2010 o giù di lì.
Per intanto il muro di chitarre non ha mai lasciato intravedere la luce, nemmeno una crepa prima della confessione a cuore aperto arrivata giusto in fondo: un modo per ripararsi, forse. Per un disco che è senza ombra di dubbio sincero, scritto e suonato da gente che sa come si scrive e suonano belle canzoni, ma a cui rimane troppa testa e un cuore a battito ridotto per troppi passaggi. D’altronde, riuscire a infilarsi senza colpo ferire nei binari tracciati da quei tre (quasi quattro) episodi degli anni ’90, sarebbe stata roba da miracolati. E gli Alice in Chains, miracolati, proprio non lo sono mai stati.

Alice in Chains – Black Gives Way to Blue
Virgin Records – 60 minuti
Queste dovete ascoltarle: Private Hell, Check My Brain, Black Gives Way to Blue

Zavalutazione: ♥♥♥

0 risposte su “Se il cuore rimane sulla copertina”

Infatti sì. Bisogna vedere se volessero sostituirlo o solo modificare l’alchimia di base degli Alice in Chains, altrettanto difficile da modificare senza che qualcosa, alla fine, non torni. Ma comprendo benissimo la voglia di fare un disco a nome Alice in Chains. Un buon disco, comunque.

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