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Era l’unonovenovesei

Il 1996 è stato l’anno in cui è cominciato quello che poi, per larga parte, non è mai successo. Orfana e scioccata dopo quel buco in testa dell’8 aprile, la scena musicale che ha eletto quale sua capitale Seattle deve darsi una scrollata e decidere che fare della propria adolescenza e, se c’è tempo, anche della fase adulta. Bisogna cambiare, per non diventare delle macchietta da MTV, nel frattempo dimostrando a se stessi che non si è schiavi di un solo modo di grattare la chitarra. 
Se i Nirvana lo avevano già fatto, con il più lancinante e illuminante degli epitaffi (“In Utero”), gli altri si ritrovano proprio nel 1996 di fronte al crocevia, e i grandi nomi imboccano vie differenti rispetto a quelle battute fino a quel momento. I Pearl Jam svoltano definitivamente, dopo aver messo una freccia grossa così con la mitologia di “Vitalogy”: il risultato è quel “No Code” di cui credo di aver parlato un gozziliardo di volte sui vari blog, quindi anche basta. Ma non sono soli. [continua cliccando qui]

Down on the Upside (Soundgarden, 1996)
Down on the Upside (Soundgarden, 1996)

Il 1996 è stato l’anno in cui è cominciato quello che poi, per larga parte, non è mai successo. Orfana e scioccata dopo quel buco in testa dell’8 aprile, la scena musicale che ha eletto quale sua capitale Seattle deve darsi una scrollata e decidere che fare della propria adolescenza e, se c’è tempo, anche della fase adulta. Bisogna cambiare, per non diventare delle macchietta da MTV, nel frattempo dimostrando a se stessi che non si è schiavi di un solo modo di grattare la chitarra. 
Se i Nirvana lo avevano già fatto, con il più lancinante e illuminante degli epitaffi (“In Utero”), gli altri si ritrovano proprio nel 1996 di fronte al crocevia, e i grandi nomi imboccano vie differenti rispetto a quelle battute fino a quel momento. I Pearl Jam svoltano definitivamente, dopo aver messo una freccia grossa così con la mitologia di “Vitalogy”: il risultato è quel “No Code” di cui credo di aver parlato un gozziliardo di volte sui vari blog, quindi anche basta. Ma non sono soli.

Sarà l’ultimo disco, ma forse non lo sanno neanche loro: i Soundgarden si presentano al proprio pubblico con “Down on the Upside”, il peggior album della loro carriera a voler dar retta alla critica del tempo, al risultato nell’immaginario collettivo in un pubblico che, così come era stato montato (almeno fino a un certo punto) dalle etichette e dalla stessa MTV, così è stato dirottato altrove. “Down on the Upside”, comunque, è un bel disco. Parte dalle premesse di “Badmotorfinger” e di “Superunknown”, ma solo per poi pensarci sopra e capire che fare e dove andare a parare. Il risultato è in quei 60 minuti che, a risentirli oggi, fanno solo aumentare i rimpianti per il successivo scioglimento. Poteva essere l’inizio di una seconda fase (o terza, volendo), in linea con quanto avrebbero fatto i Pearl Jam. Più voglia di giocare altre carte, più attenzione per la sovrapposizione di suoni, più giochi con le dinamiche all’interno di ogni canzone, meno impatto stravolgente (che comunque non manca), ma la necessità di dire qualcos’altro in maniera più sottile e meno scontata. Con tutto il bene del mondo che si può e si deve volere a ogni pezzo scontato (si fa per dire) dei dischi precedenti. 
Dal ritornello a doppia voce e tutto vissuto attorno allo strepitoso lavoro di batteria di Matt Cameron di “Pretty Noose”, alla battaglia di mandolini di “Ty Cobb”, con strati di suono che sul finire vanno accavallandosi con ampie gettate di sudore. Dalla “perfetta base Soundgarden” di “Rhinosaur” subito tradita dalla voce che se ne va per conto suo e non lascia appigli, alla perfetta canzone Soundgarden (e basta) che è “Blow Up the Outside World”. In mezzo c’è tempo per le sfuriate più traizionali (“Never Named”, “No Attention”, “Never the Machine Forever”) e alla fine la splendida chiusura atmosferica di un trittico da sturbo vero: “Overfloater”, “An Unkind”, “Boot Camp” (nel file musicale qui sopra). Qui si viaggia tra Led Zeppelin e una puntina di Beach Boys, con due o tre pastiglie da garage rock lurido ed essenziale. Da qui i Soundgarden avrebbero potuto ripartire per fare altro di altrettanto caratteristico, personale e grande. Con un’alchimia di gruppo che, almeno in studio, non pareva poter essere messa in discussione e la voce di Cornell ancora capace di reggere, il 1996 non sembrava l’anno in cui finire a testa in giù. 
Sempre nel 1996, anche “Tiny Music… Songs from the Vatican Gift Shop”, il tentativo tutto simile a quelli già accennati degli Stone Temple Pilots. Ma me lo tengo per un’altra serata di svacco noioso.

E ora proviamo anche il sondaggio.

9 risposte su “Era l’unonovenovesei”

Notizia bomba!
Chris Cornell sta registrando la nuova sigla dei Puffi (featuring Rhianna). Attendo(-iamo) un’anteprima!

Guarda, ti direi anche che l’ultimo disco solista di Chrissy Chris non è male, se solo avessi avuto il fegato non dico di ascoltarlo, ma almeno di scaricarlo giusto per sfregio.

A dirla tutta, il primo singolo un pò unz unz non mi è dispiaciuto, ma il 2° pezzo feat. un niggaz a caso mi ha fatto accappppponare la pelle! Seguirò il consiglio e ascolterò comunque lellepì.

p.s. quanti ne conosci che sono andati a vederlo nel tour del suo 1° album solista?? adesso uno…

No dai, il primo singolo non è quello tipicamente “yo yo bitcha”? No dai, allora no. Secondo manco sentito. E il mio consiglio non era certo quello di scaricarlo e sentirlo: 😀
Per il tour: parli di “Euphoria Morning”? Mai ascoltato, ma in molti ne parlarono bene.

Manco sapevo come si chiamasse l’album, mi ha spinto la speranza che facesse pezzi dei suoi ex-fratelli, che avevo già visto più volte con mooolto godimento. Nada purtroppo, a parte blecolsan anplaggd.
Ho colto tardi l’ironia, ormai avevo scritto. Anche per il gradimento dei video sono andato a sensazione, magari ero in stato alterato e ho confuso. Verificherò.

Per evitare equivoci: Euphoria Morning è del 1999. Immagino parli di quello, anche perché non mi risulta ce ne siano altri (a parte quest’ultimo ovviamente). Comunque credo valga all’incirca come i miei concerti del primo disco degli Audioslave, che non era poi granché male (niente rispetto a quanto avrebbero potuto fare, ma vabbé). E infine: cali su di te la vergogna, non si va ai concerti dei solisti/nuovi gruppi di gente che prima era con un altro gruppo aspettandosi le “vecchie” canzoni.

verovero, ma l’affetto e la nostalgia per il gruppo sciolto prematuramente mi sembravano ragioni sufficienti sia per osare un concerto solista del frontman, nonostante la tristezza suscitatami dalle poche note sentite del suo lavoro, sia (e appunto) per sperare che regredisse allo stato di rocker urlatore capellone. I video nuovi li ho rivisti e non c’è proprio nulla di notevole. Continuo a sperare, ma il country sta arrivando.

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